Il crollo mondiale del Fast Fashion. Tutta colpa del Covid?

Saracinesche abbassate, danni miliardari, ordini saltati, posti di lavoro a rischio: la crisi del lockdown ha travolto il settore. Il direttore di Polimoda: “Troppa produzione, troppa tensione alla vendita, troppa ridondanza di stile: il virus ha solo messo a nudo una moda che non stava bene già da tempo”.

È il primo “rosso” in circa due decenni di storia del fast fashion, e non si tratta del colore di tendenza dell’anno. Saracinesche abbassate, danni miliardari, ordini saltati, posti di lavoro a rischio: il lungo buio del lockdown ha tolto linfa al settore che dalla fine degli anni Novanta, combinando prodotti a basso costo con assortimenti veloci, si è imposto trasformando le abitudini di consumo globali.

Un primo scossone si era avuto nel 2018 con l’entrata in crisi del marchio low cost americano Forever21, che ha poi fatto ricorso alla bancarotta nel settembre 2019. In questo 2020, la scure del coronavirus: negozi chiusi e domanda crollata hanno fatto entrare in sofferenza molti big del settore. Da Zara, passando per H&M e Primark, fino ai non lontani parenti d’oltreoceano del fast fashion tra cui spiccano i grandi magazzini come Macy’s.

A pesare sul settore della “moda veloce”, c’è anche una produzione fortemente globalizzata. Le fasi di realizzazione di un singolo capo d’abbigliamento sono dislocate in paesi lontani tra loro, e questo ha reso ancora più difficile la gestione della crisi: dalla produzione, all’inventario, fino agli affitti.

“Il Covid-19 ha solo messo a nudo una moda che già non stava bene. Troppa produzione, insostenibile per il pianeta. Troppa tensione alla vendita, insostenibile per i rapporti umani. E troppa ridondanza di stile, la negazione della moda stessa, che invece vive di cambiamento”, dice all’HuffPost Danilo Venturi, direttore dell’istituto internazionale di fashion design e marketing Polimoda. In questo scenario – sostiene Venturi – ad essere ridisegnato dovrà essere il modello di business che “deve ripartire dai fondamentali: un sistema di produzione e distribuzione sostenibile, una gestione di qualità delle risorse umane e una maggiore coerenza tra quello che si fa e quello che si comunica”.

Perché il panorama è tutt’altro che roseo, ma l’industria moda può riscrivere il suo futuro attraverso nuove strategie e scelte. Nell’attesa, in queste settimane a fare notizia rimane la crisi contingente. Per fare qualche esempio: l’annuncio della chiusura di 1.200 negozi tra Europa e Asia del gruppo Inditex, cui fanno capo i marchi Zara, Pull&Bear, Stradivarius, Bershka, Oysho, Zara Home, Massimo Dutti e Uterque. L’azienda ha fatto sapere che la nuova strategia di crescita punterà maggiormente sull’e-commerce, canale già in crescita. D’altronde sono stati proprio il distanziamento sociale e il lockdown ad evidenziare l’importanza dei canali digitali all’interno della catena fashion.

Ad abbassare le serrande durante la pandemia oltre 3.400 dei 5.062 negozi H&M, dislocati in più di 74 mercati nel mondo. Il colosso svedese precisa che in molti casi si tratta di chiusure temporanea (170 al momento quelle definitive), e ha dichiarato di aspettarsi perdite nel secondo trimestre dopo aver registrato un calo del 46% nelle vendite di marzo sull’anno precedente. Come Zara, H&M punta ora sul fronte delle vendite online. Ma, come in tanti altri settori e per altre realtà, la situazione occupazionale preoccupa. È delle scorse ore l’allarme lanciato in Italia per circa 2mila lavoratori H&M da parte dei sindacati Filcams, Fisascat e Uiltucs.

Primark, altro grande marchio del fast fashion, durante il lockdown ha dichiarato perdite per 650 milioni di sterline (circa 720 milioni di euro) di vendite nette al mese. Nonostante ciò, il colosso del fast fashion ha detto ‘no’ ad un bonus del governo britannico di circa 30 milioni di sterline destinato al recupero del personale: conterà sulle proprie forze e sugli store fisici. A inizio luglio, infatti, solo otto dei 375 negozi totali del marchio di proprietà di Ab Foods erano ancora chiusi e, nel frattempo, si prevedono nuove aperture. Primark fa sapere di avere registrato risultati di vendita incoraggianti alla riapertura.

Al di là del caso fast fashion, secondo le stime della rivista The Business of Fashion (Bof ) e della società di consulenza strategica McKinsey, si prevede che l’industria della moda globale (abbigliamento e calzature) nel 2020 subirà una contrazione del 27-30%, con la possibilità di tornare a una crescita compresa tra il 2% e il 4% nel 2021. Le cifre fanno tremare i polsi, considerando che il valore generato dall’industria fashion globale è stato valutato 2,5 trilioni di dollari lo scorso anno.

Ma l’emergenza sanitaria non ha soltanto generato impatto economico: si è di fatto aperto un pubblico dibattito sull’opportunità di restituire alla moda una dimensione “a misura d’uomo”. Tra i primi a lanciare un monito nei mesi scorsi c’è stato Giorgio Armani con una lettera scritta alla rivista WWD Women’s Wear Daily, in cui sottolineava la velocità insostenibile raggiunta dal settore, incoraggiando un cambiamento per un prodotto più stagionale e duraturo. “Il declino della moda è iniziato quando il segmento del lusso ha adottato i metodi operativi della moda veloce, imitando il ciclo di consegna senza fine di quest’ultimo nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo, per essere raggiunto e apprezzato”, aveva scritto Armani.

Minori consumi d’impulso, meno acquisti “usa e getta” (secondo i dati dell’Environmental Protection Agency americana, soltanto nel 2015 gli Usa hanno generato 11,9 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, finiti in discarica), più attenzione a qualità, durabilità e impatto sull’ambiente: il report di BoF e McKinsey stima che, all’indomani della crisi Covid-19, prima di acquistare il 15% dei consumatori europei farà particolare attenzione alla sostenibilità di un capo. Inoltre, secondo lo stesso rapporto, in Europa e negli Stati Uniti oltre il 65% dei consumatori intende spendere meno in prodotti di abbigliamento e accessori rispetto a quanto facesse prima della pandemia.

Abbiamo chiesto a Danilo Venturi se le abitudini stiano già cambiando e se le persone abbiano iniziato a comprare meno ma di qualità. “Sì e no”, ci dice il direttore di Polimoda introducendo una riflessione più complessa: “Molti negozi di moda sono vuoti e molti ristoranti sono pieni. La gente vuole quello che gli è stato proibito, cioè un contatto umano autentico e libero. Perciò, se da una parte il lockdown ha fatto capire che molti capi e accessori non erano necessari e i consumi si sono rivolti al basico di qualità, dall’altra parte sono i consumi aspirational e self-treating a farla da padrone, cioè quelli che più danno emozione”. Venturi sottolinea che a soffrire invece è “il prodotto di bassa qualità intrinseca e di scarso contenuto stilistico, cioè il ‘compra-dai-compra’. E la gente giustamente non compra”.

Ma la crisi del fashion, come dimostrato dai già citati dati sull’industria della moda globale diffusi da BoF e McKinsey, valica i confini del “fast”. A fare notizia, negli ultimi giorni, anche un marchio storico come Brooks Brothers, la più antica catena di negozi al dettaglio d’America e simbolo della moda maschile. Nonostante gli oltre 200 anni di storia e i trentasette (su quaranatcinque) Presidenti Usa vestiti, il marchio non ha resistito ai cambiamenti subiti dal mercato nel corso dei decenni, cedendo dopo il blocco dei consumi dovuti al lockdown. La società ha presentato il Chapter 11, simile all’amministrazione straordinaria italiana, che consente di tenere aperta un’azienda in grave crisi a patto di pagare i creditori e avviare un piano di risanamento.

Caso isolato o primo tassello che rischia di scatenare un effetto domino anche nelle realtà di fascia più alta? Sui marchi del lusso, Danilo Venturi di Polimoda ha le idee chiare: “I marchi fashion luxury italiani e francesi non falliranno, soprattutto quelli che godono della protezione dei grandi gruppi. Anzi, trovo giusta la scelta di alcuni di prendersi un periodo per produrre e vendere solo quello che si sentono e quando se la sentono. Questo potrebbe far tornare la voglia di scoprire la novità nei mono-marca”.

“Ma – sottolinea Venturi – una vera ripresa sistemica avverrà solo con l’innovazione, come ogni dopo ogni grande crisi. Basti ricordare Chanel e Ferragamo che tra le due guerre hanno introdotto nuovi materiali, riferimenti culturali ed occasioni d’uso, reinventando così la donna e la calzatura. Oppure Armani, che destrutturando una giacca ha reinventato l’uomo”. E conclude: “Quando qualcuno ha coraggio gli altri seguono e il sistema riparte. Bisogna giocare all’attacco. Mai stare fermi”.

H&M Italia precisa:

H&M Italia, a rettifica delle informazioni pubblicate su alcuni organi di stampa e della comunicazione diffusa dai Sindacati Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs, tiene a precisare quanto segue.

H&M smentisce la notizia dei 2000 posti di lavoro a rischio. L’Azienda ha annunciato la chiusura di otto punti vendita in Italia entro la fine dell’anno. Ottimizzare e perfezionare il portfolio di punti vendita per adattarsi all’evoluzione continua del mercato è essenziale per garantire la stabilità economica dell’azienda a lungo termine.

H&M crede nelle persone e si è impegnata sin dall’inizio a trovare le migliori soluzioni possibili per tutti i dipendenti coinvolti, conformemente alla legge e nel rispetto delle proprie politiche interne e valori.

In merito alle due chiusure di Milano, in un quadro generale di grave difficoltà del settore retail, dovuto al momento straordinario in cui ci troviamo, H&M è riuscita a garantire una ricollocazione per tutti i 57 dipendenti dei due punti vendita, al fine di salvaguardare la totalità dei posti di lavoro.

La maggior parte delle ricollocazioni è avvenuta su Milano, Provincia di Milano e Monza Brianza, in aggiunta a quelle in Lombardia e aree limitrofe. Le poche ricollocazioni in zone non limitrofe lombarde sono state effettuate a fronte di esigenze espresse da parte dei dipendenti.

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