NUOVE SOLITUDINI: Nell`epoca del Covid l`altra grande malattia è l`isolamento sociale

Il Dubbio – 01 dicembre 2020

solitudine-come-essenza-della-vita-degli-uomini_55d8d292-e2af-11e7-94a7-c80d8c53e8aa_512_512_new_square_largeNell’epoca del Covid Faltra grande malattia è Fisolamento sodalo ORLANDO TRINCHI i auguro che questa condizione di solitudine forzata prodotta dal lockdown possa costituire l’occasione per comprendere meglio, più in profondità, quanto il nostro bisogno di relazioni ci determini, favorendo una riflessione, personale e collettiva, su quanto l’altro ci sia necessario per essere noi stessi. Firma del quotidiano II Foglio, già fellow allaNieman Foundation for Journalism di Harvard, Mattia Ferraresi prende in esame nel suo nuovo saggio – Solitudine. lì maìe oscuro delle società occidentali (Einaudi Editore, 2020) – le varie declinazioni di uno dei mali più diffusi e dcleteri del nostro tempo. Fra i suoi libri precedenti, La febbre di Trump. Un fenomeno americano (Marsilio,2016) e II secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale (Marsilio,2017). Ferraresi, cosa potrebbe produrre, a livello sociale e psicologico, la solitudine istituzionalizzata di questi giorni? Non posso formulare una diagnosi, solo un auspicio: forse eccedo in ottimismo, ma credo che chi abbia voluto cogliere questo momento come un’occasione di riflessione-e non solo come una circostanza spiacevole di cui dimenticarsi il prima possibile – possa comprendere come la convinzione che ciascuno di noi si realizzi senza bisogno degli altri sia in realtà un’illusione. Non c’è alcun dubbio che stiamo vivendo una situazione tragica, però coltivo la speranza che proprio questa circostanza possa fornire lo spunto per una presa di consapevolezza profonda del fatto che – come io profondamente credo-siamo costituiti da una trama di relazioni a cui non possiamo rinunciare, se non a costo di rinunciare a noi stessi. Negli ultimi lustri, la solitudine è assurta al rango di vera e propria malattia. Lei cita l’esperimento inglese, incentrato sulla creazione di una sorta di Ministero della solitudine. Pensa che i vari governi dovrebbero impegnarsi maggiormente in tal senso? Paradossalmente credo di no. Sottolineo il fatto che i governi sempre più riconoscano questo problema, ma ho il dubbio che non lo comprendano fino in fondo e possano quindi confondere le reali esigenze delle persone, offrendo risposte senz’altro utili ma non del tutto adeguate alla profondità della domanda che emerge. In altre parole, non credo che sia un programma ministeriale – anche il meglio ispirato e strutturato del mondo-a poter ris pon dorè opportunamente alla serie complessa di ragioni che spingono un ragazzo a isolarsi nella propria stanza. Non sono certamente contrario allo sviluppo di programmi sociali finalizzati a combattere l’isolamento, ma non penso che la risposta che essipossono offrire sia allo stesso livello delle domande. Figure come l’hikikomori in Giappone devono essere considerate come portati di nna data società o presentano componenti più trasversali e universali? La mia ipotesi interpretati va al riguardo vira nella direzione dell’universalità, rinvenendo in esse un tratto che accomuna il panorama del contemporaneo, anche se non nego che esistano società ed eredità culturali specifiche che accentuino in misura maggiore questo carattere. Lo psichiatra giapponese che per primo ha studiato la figura dell’hikikomori e neha coniato il nome, SaitoTamaki, ha sostenuto per anni che si trattasse di un fenomeno che si manifestava in Giappone in modo particolare ma che il disagio che rilevava in questi ragazzi afferiva a una patologia che travalicava le specificità della sola società giapponese, che pur ne veicolava con maggiore evidenza talune inclinazioni, Ha intrapreso una vera e propria battaglia dialettica contro chi intendeva semplicemente culturalizzare il fenomeno. La sua interpretazione mi appare la più adeguata. Le società contemporanee si riconoscono sempre piùfatheless o childless o intraprendono strategie di marketing indirizzate esclusivamente ai single Credo che ciò rappresenti il tratto fondamentale della modernità, quel profondo spostamento dell’asse antropologico che è avvenuto in modo particolarmente intenso negli ultimi trecento-quattrocento anni, ovvero la liberazione-uso una parola volutam ente ambigua – dell’individuo dalle relazioni. Relazioni di potere, relazioni con il mondo della religione, con gli obblighi imposti dalle gerarchie sociali e da un certo assetto culturale, ecc,., La storia della modernità è la storia della liberazione dell’individuo dai legami. Mentre da una parte si è pensato che ciò rappresentasse un fine auspicabile per l’umanità – quest’emancipazione dalla sudditanza nei confronti di gerarchie di 01-12-2020 Estratto da pag. 6 Pag. 1 di 2 107 vario genere -, dall’altra ha avuto come conseguenza di isolare l’individuo. Da qui il tratto fondamentale della modernità: la nascita dell’individualismo. Permangono tuttavia tentazioni residuali in direzione della comunità. Lei evidenzia le caratteristiche dell’identity politics. In che modo la politica identitaria di Trump o altre conformazioni politiche analoghe hanno cavalcato questa onda? L’hanno sicuramente sfruttata molto. Si assiste al riemergere di un bisogno che definirei strutturalmente umano: il bisogno relazionale, la necessità di sentirsi parte di una comunità, di riconoscere un legame strutturale con gli altri. L’affiorare di questo bisogno va incontro a strumentalizzazioni: ciò è evidente con Trump e con tutte le varie manifestazioni populiste e nazionaliste, così come anche in alcune espressioni della sinistra, che fanno leva – a volte assecondando, altre volte strumentalizzando per fini meramente politici – su una necessità autentica. Il forte rilievo dato al senso di comunità, in questo caso contraddistinta da un codice etn o-nazionalista, rappresenta un abbozzo di risposta a una domanda vera, e trovo sbagliato gettare la risposta inadcguata che quel tipo di politica ha dato insieme all’esigenza reale da cui essa è scaturita. Individua nell’esperienza religiosa l’opposto della solitudine? Sì, nonostante la strumentalizzazione che, in diverse epoche, è stata fatta del fenomeno religioso, L’esperienza religiosa – e questo vale per l’intero spettro delle religioni – include la creazione di un legame con la comunità. Quello che trovo di interessante nelle religioni è tuttavia il fatto che esse abbiano anche un’ambizione più alta della semplice creazione di una comunità, ovvero quella di saldare un legame con il divino, con il Tu per eccellenza. La religione ha questo come essenza: creare il legame definitivo, non solo un legame con altre persone. Il legame fondamentale da cui discendono tutti gli altri legami. Nel suo ultimo libro, lei si chiede su cosa foudare la comunioue?,Perpoi rilevare gli inganni della comuuicazione attuale, ovvero banalizzazione,radicalizzazione e diminuzione del dramma. Quali sono gli aspetti priucipali di queste tré distorsioni comunicative? In ogni epoca ñ contesto, l’esigenza di recuperare il senso di comunità si accompagna a possibili manipolazioni. L’aspetto relativo allabanalizzazione è più evidente oggi, durante l’era digitale, con il fenomeno dell’iper-connessione, in cui il surrogato di un legame vero, profondo e strutturale fra le persone muta nella superficialità delle nostre comunicazioni digitali che, se da una parte hanno l’enorme pregio di essere rapide e di poterci mettere in collegamento con tutti, dall’altra sono caratterizzate da scarsa profondità e dal poter essere facilmente cancellate. Ciascuno possiede il pieno controllo della comunicazione digitale-può cancellare a piacimento gli amici su Facebook o eliminarli dalle chat – mentre l’altro diventa sempre più eludibile. Credo che la radicalizzazione, invece, stia surrogando la dimensione religiosa cui mi riferivo poc’anzi; attraverso essa prende vita la tragica illusione di trovare un senso, diventando una motivazione monolitica, fonte di distruzione e auto-distruzione.

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