Livatino ucciso dalla mafia. “I boss lo odiavano per la sua fede”

thLa cerimonia ventotto anni dopo l’anatema di Papa Wojtyla contro la mafia nella Valle dei Templi. La festa sarà celebrata ogni 29 ottobre. Sull’altare, la sua camicia intrisa di sangue. Il Papa: “Esempio per i magistrati”. In Vaticano una commissione sulla “scomunica alle mafie”.

AGRIGENTO – La Chiesa ha un nuovo beato, Rosario Angelo Livatino, il giudice siciliano odiato dai boss per le indagini che portava avanti, ma anche per la sua fede. Nella Cattedrale di Agrigento risuona il nome dell’ultimo martire della mafia, ma è anche il primo magistrato che diventa beato nella storia della Chiesa. Questo giorno è stato scelto non a caso per la proclamazione: il 9 maggio del 1993, Papa Wojtyla lanciò il suo anatema contro i mafiosi proprio ad Agrigento, nella Valle dei Templi: “Convertitevi – disse – un giorno verrà il giudizio di Dio”.

Oggi, Papa Francesco rilancia, al Regina Coeli, durante la preghiera pronunciata dalla sua finestra in Vaticano: “Livatino è stato martire della giustizia e della fede nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo che non si è lasciato mai corrompere. Si è sforzato di giudicare non per condannare, ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre sotto la tutela di Dio, per questo è diventato testimone del Vangelo, fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo a essere leali difensori della legalità e della libertà”.

Rosario Livatino aveva 38 anni quando fu ucciso, il 21 settembre 1990, lungo la strada statale. Stava andando al palazzo di giustizia, con una Ford Fiesta. Non aveva alcuna scorta. Unica protezione, la preghiera. Nell’agendina che trovarono accanto al cadavere, c’era una sigla: “Std”: “Sub tutela Dei”. Sotto la protezione di Dio. Sotto il suo sguardo. Non era un cristiano bigotto, tutt’altro. Una volta disse: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Il messaggio del “giudice ragazzino” che diventa un monito per l’intera magistratura, oggi attraversata dalle polemiche e dalle inchieste. Le parole di Livatino le rilancia il ministro della Giustizia, Marta Cartabia: “L’indipendenza del giudice è nella credibilità che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività”. Don Luigi Ciotti, anche lui ad Agrigento, lancia un appello: “Ora che è beato, dobbiamo stare attenti a non farne un santino da invocare o da celebrare. Il miglior modo per ricordare Rosario Livatino è invece imitarlo nel suo luminoso esempio di virtù civili e cristiane”. Don Ciotti è uno dei componenti del nuovo gruppo di lavoro voluto dal Papa per la “scomunica alle mafie”, ne fanno parte anche l’ex procuratore Giuseppe Pignatone, l’ex presidente della commissione antimafia Rosy Bindi, monsignor Michele Pennini (vescovo di Monreale) e don Marcello Cozzi (docente della Pontificia università Lateranenze).

“In odium fidei”

“I gruppi mafiosi decretarono la morte di Livatino perché odiavano la sua fede”, dice in apertura della cerimonia il postulatore della causa di beatificazione, monsignor Vincenzo Bartolone. “Il suo martirio è un ulteriore segno dell’assoluta inconciliabilità tra Vangelo e mafia. Livatino ha onorato la magistratura, la terra di Sicilia e la Chiesa”. Il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, legge la disposizione di Papa Francesco: “Accogliendo il desiderio del cardinale di Agrigento Francesco Montenegro e di molti altri fratelli nell’episcopato e di molti fedeli concediamo che il venerabile Rosario Livatino, laico e martire che nel servizio della giustizia fu testimone credibile del Vangelo, d’ora in poi possa chiamarsi beato”. La festa sarà celebrata ogni 29 ottobre. Un applauso riempie la Cattedrale mentre viene portata sull’altare una reliquia del nuovo beato, la sua camicia intrisa di sangue.

Un giudice contro le cosche

“Abbiamo bisogno di modelli come lui – dice l’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso prima che inizi la messa – modelli che testimonino la grande dedizione di tanti magistrati in un momento in cui la magistratura non gode della fiducia dei cittadini”. Ad Agrigento è arrivato anche Federico Cafiero De Raho, l’attuale procuratore nazionale. “Livatino è stato mio compagno di corso – racconta – oggi è un’emozione grande. Era un magistrato umile e riservato. Le sue doti? Equilibrio e carità, che gli permettevano di comprendere il contesto in cui operava senza rigidità”.

Don Giuseppe Livatino, il primo postulatore della causa di beatificazione, ricorda l’ultima frase che disse ai sicari prima del colpo di grazia: “Piccio’ (picciotti – ndr), che cosa vi ho fatto?”. Li richiama. Aziona l’arma del dialogo. Lascia un quesito che germoglia e lentamente porterà chi spara a pentirsi”. Erano gli uomini della “Stidda”, l’altra mafia siciliana.

Nella sentenza che li ha condannati è scritto: “Il giudice perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”. Rosario Livatino era magistrato ritenuto inavvicinabile proprio per il suo essere cattolico praticante. Fu dal 1979 al 1989 sostituto procuratore, istruì il primo maxiprocesso alle cosche agrigentine; poi, divenne giudice. Le sue carte continuano a girare nel cuore della Sicilia. Come se lui fosse ancora qui.

“Qualche tempo fa – racconta emozionato il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, anche lui in Cattedrale – mentre lavoravamo per restituire un fondo alla cooperativa Libera Terra, dopo incursioni e incendi, abbiamo ritrovato nel fascicolo il provvedimento con cui questo bene era stato sequestrato alla mafia. C’era anche la firma di Rosario Livatino, all’epoca giudice delle Misure di prevenzione”.  Il vero miracolo del giudice che oggi diventa beato. “Le sue carte, testimonianza di uno straordinario lavoro, continuano a essere una fonte straordinaria di conoscenza”, dice don Giuseppe Livatino. “Non era un giudice di provincia, sarebbe sbagliato ricordarlo così, ma uno straordinario investigatore, che si ritrovò al fianco anche del giudice Giovanni Falcone”.

“Testimone della giustizia”

Nella Cattedrale di Agrigento risuona ancora il suo nome. L’omelia del cardinale Semeraro ripercorre le ragioni del martirio. “Non fu solo l’uccisione di un uomo delle istituzioni, e neanche solo l’uccisione di un giudice cattolico. Colpirono un testimone della giustizia, che affrontava il male per salvare le vittime, ma anche i carnefici”. Le sue ultime parole sono “l’eco del lamento di Dio – dice il celebrante – ‘Popolo mio, che cosa ti ho fatto?’ Non è una condanna, ma un invito a ripensare la propria vita, a convertirsi”.

L’appello dei vescovi

Questa non è solo una storia del passato. I mafiosi continuano ad andare in chiesa. Il capo della nuova Cupola, Settimo Mineo, non mancava mai alla messa della domenica. E pure i suoi fedelissimi dicevano di essere dei buoni devoti. Però, si arrabbiavano quando qualcuno iniziava a parlare di don Pino Puglisi, il parroco palermitano ucciso dai boss il 15 settembre 1993, pure lui nominato beato per il suo martirio: “Lo hanno fatto santo – commentava Giovanni Spanò – ma santo di che? Ha fatto miracoli? Una volta ti facevano santo quando facevano i miracoli le persone”. E parlavano di un prete. Figurarsi adesso che la Chiesa ha deciso di fare santo un giudice come Rosario Livatino. Si possono già prevedere i commenti dei boss in carcere e in libertà. La beatificazione del giudice di Agrigento è soprattutto un segnale, per rilanciare l’impegno contro le mafie.

Alla vigilia della messa di stamattina, i vescovi siciliani hanno scritto parole forti: “Non siamo ancora all’altezza dei nostri martiti. In questi trent’anni, tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. La mafia ha trovato altre forme per infiltrarsi. Dobbiamo allora alzare la voce e unire alle parole i fatti. Non con iniziative estemporanee, ma con azioni sistematiche”.

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